di Anne Cathrine Bomann (traduzione di Maria Valeria D’Avino), Iperborea

<<Io non ho mai amato nessuno.>>
<<Non tutti abbiamo questa fortuna.
Forse per lei sarebbe più facile morire.>>
<<Forse. Ma mi è più difficile vivere.>>
Questo libro breve, ma di sostanza, mostra quanto un incontro tra individui possa essere perturbante.
L’autrice inserisce tra le righe del racconto un tema attualissimo, quello del male di vivere e della necessità di amare, sviluppato con levità e un pizzico di humor.
Francia, anni ’40. Un anziano psichiatra, solo e smarrito nei meandri della sua esistenza, vive una realtà congelata, spettatore delle vite altrui e in attesa solo della fine della sua carriera, percependo il tempo che si dilata in una clessidra i cui grani cadono troppo lentamente.
Tra una caricatura e l’altra dei suoi pazienti, però, ha la possibilità di cambiare prospettiva a causa di un elemento di disturbo entrato nella sua routine programmata: una giovane straniera, altrettanto persa, vuole continuare a combattere per la sua vita e chiede insistentemente l’aiuto del vecchio dottore, alquanto restio.
La relazione fra loro è una sorta di reciproca educazione sentimentale, in cui i confini del ruolo medico-paziente vanno gradualmente perdendo il loro carattere netto, rivelandoci via via il transfert e, soprattutto, il controtransfert instauratisi.
Ho avuto l’impressione che il libro fosse uno specchio: il dottore comincia a vivere quando può vedere nelle persone che lo circondano il riflesso delle sue stesse fragilità.
Cadrà il velo che lo tiene prigioniero? Darà il giusto valore alla sua vita, aprendosi al mondo esterno?
Sappiate solo che qui fine e inizio sono due parole dal significato piuttosto relativo.
[Serena, @culturalpills]
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